Traduttori: Christian e Franci
Non si può negare che lo sviluppo dell’economia turistica in società contadine provochi rapidamente la marginalizzazione dell’attività agricola, Maiorca ne è un buon esempio. La condanna al disuso che colpisce l’attività contadina influisce direttamente sulla cultura, l’economia e il tessuto sociale della popolazione: si è passati da una società rurale che, fuori da ogni mito, destinava molte energie all’autosussistenza, ad un modello capitalista, urbano e consumista, con tutte le disuguaglianze e lo spreco di risorse che comporta. All’inizio l’aumento dei profitti per una parte della popolazione crea il miraggio di una falsa abbondanza che nasconde il lato devastatore di questo processo.
Tuttavia, nonostante il ripetitivo discorso istituzionale che propaganda l’ottimismo per il settore turistico, a livello popolare (in alcuni contesti) si comincia a percepire la sensazione di camminare verso un precipizio, e che la massimizzazione dei benefici e l’occultamento dei costi derivanti dall’attività turistica non può durare. La “monocultura” turistica porta a dei livelli di insostenibilità brutali ed è sempre più evidente che la disuguaglianza sociale è uno dei pilastri dell’attività del terziario. Per questo diventa imprescindibile affrontare il problema del ruolo che può giocare l’agricoltura nella costruzione di una società più giusta e sostenibile che non dipenda dall’approdo di milioni di turisti.
Gli effetti del turismo nelle campagne
Sebbene la complessità delle conseguenze del turismo sull’agricoltura non sia affrontabile nell’ambito di un solo breve articolo, possiamo comunque guardare a tre fattori, imprescindibili dell’attività agraria, che hanno un ruolo chiave per comprendere le rapide e in molti casi irreversibili conseguenze che il turismo sta causando all’agricoltura: la popolazione, la terra e l’acqua.
In primo luogo, il passaggio della popolazione attiva dall’agricoltura all’industria turistica fin dagli anni ‘60, ha depotenziato il settore primario, quello agricolo, in modo preoccupante, provocando anche una frattura generazionale difficile da superare se teniamo conto che la trasmissione dei saperi popolari da una generazione all’altra è fondamentale per lo sviluppo della piccola produzione contadina. Parallelamente, l’ingresso nel mercato globale ha fatto sì che solo le grandi colture intensive potessero affrontare la concorrenza, approfittando al massimo di un nuovo fattore: la manodopera immigrata.
In secondo luogo la speculazione urbanistica ha portato il prezzo della terra a dei livelli completamente irraggiungibili per le attività agricole. La colonizzazione immobiliare del territorio è stata totale, e possiamo distinguere tre fasi chiare in questa ondata costruttrice: la prima, negli anni ‘60, produsse l’urbanizzazione intensiva delle prime linee costiere. La seconda inizia negli anni ‘80 con una timida protezione degli ambienti naturali che sono sopravvissuti alla prima. Infine un terzo momento di questa colonizzazione si può individuare negli anni ‘90 e colpisce direttamente le campagne e l’entroterra; quest’ultima tappa è quella che più ha cambiato la fisionomia rurale, giacché ha comportato la costruzione di un’infinità di villette, agriturismi e seconde case.
In terzo luogo, l’uso ludico dell’acqua proprio dell’economia turistica, indirizzato soprattutto ai campi da golf, alle piscine, alle irrigazioni dei giardini ornamentali e dei prati all’inglese, porta i livelli di consumo molto al di sopra delle risorse naturali dell’isola. Oltretutto, molti metodi tradizionali d’approvvigionamento dell’acqua che provenivano dalla cultura agraria sono stati cancellati senza pensarci due volte: pozzi d’assorbimento distrutti da superstrade, abbandono dell’orticultura a secco, spreco dell’acqua piovana etc. Una netta contraddizione emerge tra il proliferare delle piscine e il degrado del Pla de Sant Jordi, la zona a coltivo umido probabilmente più importante dell’isola che ora si trova totalmente limitata dalla crescita urbana periferica alla città: depositi d’idrocarburi, l’aereoporto di Son Sant Joan, grandi magazzini.
La necessità di un nuovo paradigma rurale
La situazione in cui si trovano le campagne dopo più di mezzo secolo di “monocoltura turistica” e agricoltura industriale, relegate nel ruolo meramente paesaggistico e romantico o come fonte di profitto di pochi padroni rende più che necessario un cambio di paradigma, che già sta cominciando. Il conflitto esistente tra due forme generali di intendere l’agricoltura si situa al centro della discussione. Da un lato abbiamo il modello di agro-industria neoliberale, per cui ogni territorio dovrebbe specializzarsi nelle attività che gli portano maggiori profitti ed integrarsi nell’economia globale; dall’altro lato abbiamo il modello della sovranità alimentare, di un’agricoltura pensata per il consumo locale con una base cooperativa e articolata attraverso le piccole produzioni.
Il modello neoliberale, insinuatosi tra i contadini attraverso i progressi tecnologici, nasconde un’ideologia molto concreta che riempie le tasche dei soliti. La logica di questo modello è che la priorità dell’agricoltura deve essere modellare la produzione in base alle esigenze di mercato. Da qui l’utilizzo intensivo della terra, l’uso di prodotti chimici e di semi transgenici, grandi macchinari, ecc. Indirizzare la produzione verso ciò che può essere esportato porta alla vendita di prodotti al di sotto dei costi di produzione, distruggendo le economie locali.
L’ingresso dell’agricoltura nel mercato globale favorisce solamente gli impresari più grandi e influenti a livello politico. A Mallorca, per esempio, abbiamo impresari di origine franchista come Antoni Fontanet – specializzato nella speculazione dei cereali – o altri di facciata più democratica, come i fratelli Company, che, avendo grande influenza nelle istituzioni, sviluppano un’agricoltura completamente basata sulle sovvenzioni statali. Infatti gli aiuti allo sviluppo rurale sono concessi da tre imprese pubblico/private, FOGAIBA, IBABSA, I SEMILLA. Non a caso, molti contadini identificano con l’entrata nell’Unione Europea del 1986 l’inizio della fine delle piccole colture locali. In conclusione il modello agricolo capitalista ci ha portati all’occupazione dei campi per parte di grandi imprese, a un nuovo tipo di dispotismo nell’ambito agrario e all’abbandono delle piccole produzioni.
Per fortuna ci arrivano alcune buone notizie in direzione opposta. Il consolidamento del movimento agro-ecologico prosegue. Cooperative come, “Això és vida”, “Ecoxarxa” “Coanegra”, l’organizzazione APAEMA, e molte altre iniziative dimostrano che la spinta di questi movimenti è forte. Le loro proposte sono chiare: produzione ecologica, economia locale e relazioni orizzontali. Tuttavia, anche il prodotto ecologico, paradossalmente, è ormai inglobato nel mercato capitalista, e per questo il suo commercio è nelle mire di impresari opportunisti che lungi dal puntare a un cambiamento sociale, cercano solamente il beneficio economico o passarsi le giornate nelle loro moderne masserie. Un esempio significativo, a Mallorca, si può trovare nella villa “es Fangar”, situata tra le città di Felanitx e di Manacor: 500 metri quadrati di produzione ecologica di proprietà del grande magnate tedesco Eisenmann, proprietario, allo stesso tempo, della sezione di sviluppo robotico della Mercedes Benz.
Evidentemente diventano necessarie alcune considerazioni e lo sviluppo di un dibattito, iniziando col riconoscere che l’ecologismo di per sé non è sufficiente a combattere le disuguaglianze del capitalismo. Per formare un movimento agro-ecologico rivoluzionario, oltre alla sostenibilità ecologica delle coltivazioni dobbiamo anche riflettere su come costruire economie locali coerenti che vadano al di là dei piccoli gruppi di consumo. Inoltre dovremmo cominciare a discutere di come affrontare la “monocoltura turistica” partendo dal mondo rurale giacché nelle campagne non è possibile né collaborarvi né girarsi dall’altra parte, ed è fittizio parlare di sovranità alimentare se si ricevono 10 milioni di turisti ogni anno e infine occorre pensare a come riuscire a rendere fattibili i nostri progetti di trasformazione negli ambienti rurali.